domenica 30 novembre 2008

nonno neo-laureato

Zio Giancarlo mi invia una foto del nonno da poco laureato ed arruolato in Marina come Ufficiale Medico in Servizio Permanente Effettivo.
Come mi fa notare lo zio, è davvero straordinaria la somiglianza con il cugino Massimo.
Nella foto di famiglia del Natale 1912 il nonno indossa la stessa divisa, ed ha gli stessi baffetti. Che siano foto scattate lo stesso giorno?

giovedì 27 novembre 2008

i fratelli alle Vigne

I primi discendenti quasi al completo.
Questa foto è certamente della seconda metà degli anni ottanta, se non degli inizi dei novanta.
E' assente Mariella.
Alla prossima. Piero

non solo la vela...

E' una foto vecchiotta anche questa, dovrebbe essere del '91. In ogni caso raffigura zio Silvio mentre cerca di coinvolgere la nipotina nella sua 'magnifica ossessione'. Non smanioso per la barca, il mio caro genitore ama ed ha sempre amato la 'buona musica': la ascolta, la compone e la fa ascoltare.
La foto è ricavata dalla copertina del CD Sentieri d'acqua, "...eri tu che suonavi o era la piccola Ilaria che tirava manate sulla tastiera? (tutt'e due, ovviamente!)"

domenica 23 novembre 2008

Novantesimo compleanno di nonna Ida

E' il sette di novembre del 1990; la nonna compie novanta anni; la torta ha nove candeline che ovviamente valgono dieci anni ognuna. Nella foto le nipotine Ester e Sara.
Alla prossima. Piero

mercoledì 19 novembre 2008

Nonna Ida e Marco, estate 1980

Nonna Ida in casa di campagna a Polignano con il primo nipotino MASCHIO (!!) di poco più di un anno.
Piero

lunedì 17 novembre 2008

sulla scalinata: ancora nipoti e nuore.

Non poteva finire qui: ecco che oggi con il mio augusto genitore abbiamo dato la caccia alle foto di famiglia. Ne sono venute fuori molte e carine: questa appartiene ad una serie scattata sul famoso terrazzo di zia Pia. Un ritratto mio e di mia sorella era incorniciato a casa di nonna, fra le foto che lei teneva sul piano.
Siamo nella primavera 1967, sulla famosa terrazza posiamo io ed Ida con nostra madre, guarita dalla polmonite e giunta in Puglia a ritrovarci. Noi bambine eravamo dalla nonna da qualche tempo: il 4 novembre precedente la nostra casa era stata invasa da acque putride e gli zii Guido e Piero erano venuti a portarci in salvo. L'alluvione di Firenze ha così portato me e mia sorella a Bari per sei mesi, fra zii e prozii. Fu difficile ma divertente e da li nacque un amore speciale di noi due per zio Guido e zio Piero, che si divertivano con noi e ci viziavano in modo scandaloso. Andammo anche all'asilo (io almeno) e ricordo la presenza frequente di zia Lidia, che mi divertiva molto.

Giancarlo 2003


Che ragazzino!!!

giovedì 13 novembre 2008

da un decennio all'altro

E' proprio divertente viaggiare fra un decennio e l'altro in compagnia di zii, nonni e prozii vari. Mi auguro che ancora molte foto escano dei cassetti e dalla scatole polverose.
Mi piacerebbe rivedere qualche foto della casa alle vigne nei tardi anni '70, quando ne fu ripreso possesso e passammo delle belle estati piene di visitatori, scorribande al mare, pomodori secchi, fichi e capperi.
Ho sempre amato la casa 'vecchia' e poco apprezzato quella 'nuova', costruita in quell'orrido stile da geometra 'mediterraneo', afosa e piena di zanzare. Ricordo un'estate nella quale l'acqua che usciva dai rubinetti era come unta, aveva una strana consistenza. Era il primo anno. Venimmo a sapere che quei porci dei muratori avevano lasciato dello sporco nella cisterna e noi avevamo rischiato di prenderci un'infezione.

mercoledì 12 novembre 2008

Trieste 2002 - tre fratelli alla barcolana

I solititi tre zii marinari alla barcolana del 2002 a Trieste sul "mitico" Yacht Morning Glory

Sammichele 1936 (circa)

Un'altra bella foto di famiglia sulla scalinata sul terrazzo a Sammichele nel 1936 (o primavera-estate 1937 in quanto io non ci sono essendo nato in ottobre di quell'anno).

Si riconoscono (secondo una mia interpretazione)

in alto da sinistra: zio Peppino, zia Chiarina, zia Pia, zio Michelino;

seduti da sinistra: zia Graziella con Enrico, zia Antonietta con Silvio con l'abito bianco, la nonna Giulia con in braccio Guido con il grembiule bianco, mamma con in braccio Giancarlo;

seduti per terra da sinistra: Cesare, Gino, Mario, Franco, Giovanni, Giulia di zio Michelino.
Alla prossima. Piero

venerdì 7 novembre 2008

Sammichele, ferragosto 1973


Un'altra foto a Sammichele sulla scalinata diventata ormai famosa per le tante foto di una grande (numerosa) famiglia. Mamma e zia Pia, ultrasettantenni, sono in splendida forma. Non da meno Anna, Laura e Paola.
Alla prossima. Piero

lunedì 3 novembre 2008

Scalinata storica

Zia Pia con Silvio e Guido, probabilmente agli inizi degli anni cinquanta.
Piero

domenica 2 novembre 2008

Coroglio 1931


Questa foto è la successiva a quella scattata a Coroglio nel luglio 1931. Da sinistra: Gino, Cesare (o Giovanni), Adriana, zia Graziella, zia Antonietta (o viceversa), zia Pia, mamma incinta. Dietro la foto inserita precedentemente c'è scritto: "Laboratorio aperto per il piccolo Stanislao Basile (o la piccola Pasqua?).
Piero

sabato 1 novembre 2008

nozze d'argento 1956

questa foto si riferisce alla festa per il 25mo anniversario delle nozze dei nonni. Mancavano zio Giancarlo e zio Silvio.
Fulvio

Ricordi personali della guerra

Nell'insieme i miei personali ricordi della guerra coincidono con quelli di Giancarlo. Metto qui solo quelli che li possono utilmente completare (e forse anche correggere, ma solo per la parte che mi riguarda).
L'Italia entrò in guerra il 10 giugno 1940. Noi bambini con nostra madre, eravamo ancora a Polignano. Nostro padre, che l’anno dopo (o forse verso la fine di quello stesso anno stesso) si sarebbe trasferito a La Spezia in qualità di direttore dell’Ospedale della Marina, doveva essere allora a Marina di Massa, ove — suppongo per ragioni di sicurezza in vista della guerra imminente — era già stata trasferita una parte dell’Ospedale stesso in un edificio sequestrato alla Gaslini che l’aveva fatto costruire come sede di una colonia estiva per i figli dei propri dipendenti. Vi erano lì vicino altri edifici simili (della Fiat e della Olivetti, a quanto ricordo, ma forse anche di altre aziende).
A Polignano la notizia dell’intervento non doveva aver fatto grande impressione. Nel settembre del 1939 la Germania aveva rapidamente invaso la Polonia, per spartirsela poi con l’URSS in modo da coprirsi le spalle per la successiva campagna sul fronte occidentale. Da quest’altra parte il 10 maggio del 1940 aveva quindi sferrato l’offensiva: vinta in pochi giorni la debole resistenza opposta dai paesi neutrali, dilagava in Francia, aggirando la linea Maginot e circondando il contingente inglese a Dunkerque. La guerra, insomma, sembrava già vinta dai tedeschi.
Di quel 10 giugno ricordo poco. Gli altoparlanti in piazza regina Margherita, proprio davanti a casa nostra, avevano trasmesso il discorso del Duce. Ma questa non era una novità, perché ogni volta che il Duce parlava dal balcone di Palazzo Venezia, gli altoparlanti trasmettevano il discorso in tutte le piazza d'Italia. E il Duce amava molto parlare da quel balcone.
La sola cosa che mi colpì questa volta era la contrarietà di mia madre. Più che preoccupata, era appunto contrariata: educata alle tradizioni del Risorgimento da suore venute dal Veneto memori del dominio austriaco e memore lei stessa dei lutti subiti in famiglia in conseguenza della prima guerra mondiale, considerava i francesi i nostri “naturali” alleati e i tedeschi i nostri altrettanto “naturali” nemici. In fondo, tuttavia, come tutti, era convinta anche lei che quella seconda guerra, di cui proprio non era entusiasta, sarebbe finita presto.
A La Spezia sicuramente eravamo già stabiliti tutti nel 1941, ma forse vi eravamo giunti alla fine del 1940. Ricordo solo che avevo cominciato la terza a Polignano per continuarla poi a La Spezia, ove frequentai anche la quarta e parte della quinta, che avrei poi terminato a Marina di Massa in una scuoletta di paese.
Solo a La Spezia cominciammo a sentire che eravamo in guerra. Giancarlo ha ricordato gli allarmi e le gite notturne al “rifugio” dell’Ospedale. Forse perché ero più piccolo di lui e comunque molto incosciente, non ne serbo tuttavia cattiva memoria. Ricordo, questo sì, che il “rifugio” era tale solo per modo di dire: era nel posto più inappropriato, sotto la tromba delle scale di un edificio a più piani. Sarà stato per caso, ma non vi cadde sopra alcuna bomba, almeno finché lo frequentammo noi. Quindi, appunto per caso, alla fine della guerra eravamo ancora tutti vivi. L'Ospedale si trovava, per giunta, fra un deposito di munizioni e l'arsenale della Marina militare: era insomma quasi un obiettivo per gli aerei inglesi... Non ci considerarono degni delle loro bombe.
Non ho però un cattivo ricordo di quegli allarmi aerei: con l'incoscienza del bambino ammirato per i loro colori sgargianti, guardavo saettare sulle nostre teste i traccianti sparati dalle mitraglie della contraerea mentre ci recavamo al “rifugio”. Poi lì mi divertiva molto don Martinengo, il cappellano militare, che evidentemente si faceva in quattro per svagarci.
Del resto, finché ci restammo, la vita a La Spezia in quei primi tempi della guerra si svolgeva abbastanza normalmente. D’estate si facevano i bagni a mare sulla spiaggia di un paesino del golfo, Marola (se non ricordo male), che pure era vicino al porto militare e all’arsenale della Marina. Un collega di nostro padre ci invitava qualche volta a pranzo (una volta a Filattiera, suo paese d’origine, in Lunigiana, altre volte a casa sua a La Spezia). In casa venivano a far visita signore e nostra madre offriva loro the o liquori e pasticcini. Si facevano anche belle passeggiate nei dintorni e ne serbo il ricordo soprattutto per le visuali sul golfo, proprio incantevoli. Nel vicino stadio una volta fu rappresentata all’aperto un’opera, la Tosca, la prima opera che ho visto. Ne ricevetti una forte impressione. Noi tre più grandi giocavamo nel giardino intorno a casa e più in là ci arrampicavamo sugli alberi dell’annesso frutteto (soprattutto i fichi erano squisiti). Giancarlo era bravissimo nel progettare giocattoli, carrettini e affini. Io e Guido ci limitavamo a segare e inchiodare pezzi di legno secondo le sue indicazioni. Ne veniva fuori ora un carrettino, ora un minuscolo sommergibile corazzato con sotto tanto d’elica mossa da un elastico, sempre, ad ogni modo, qualcosa di bello e utile per i nostri giochi. Vita del tutto normale di una famiglia moderatamente agiata, insomma.
Più che la guerra, sentimmo allora l’assenza per qualche mese di nostra madre e per qualche anno di Piero. Piero che doveva avere allora fra i tre e i quattro anni, si ammalò di una malattia infettiva allora mortale e molto mal curabile. Dovette essere isolato dai fratelli e mandato in montagna, prima con nostra madre (che si portò con sé anche Mariella, che allora doveva avere due anni o qualcosa di meno) a Baselga di Pinè, in Trentino, e poi, tutto solo, in un apposito istituto, a Sestola, sull’Appennino tosco-emiliano. Lo rivedemmo solo nel 1944 a Camaiore, ormai grandicello (tra i sei e i sette anni), tutto chiuso in se stesso e molto diverso da quel bambino allegro e giocherellone che avevamo conosciuto fino a tre anni prima.
In quei mesi in cui nostra madre dovette allontanarsi da noi, vennero da Polignano a darci una mano le due figlie maggiori di zia Annina e zio Vitantonio L’Abbate, prima Pasquina, di estate, e poi, nell’autunno successivo, Lucia. Le ricordo tutt’e due con simpatia e gratitudine, ma mi affezionai soprattutto a Lucia. Anzi, devo confessarlo: senza sapere cosa mi succedeva, m’innamorai di lei, che di anni ne doveva avere almeno ventidue o ventitrè più dei miei nove. Ricordo che, quando si sposò di lì a poco, ne soffrii. Ma con noi anche Pasquina era stata molto brava: fra l’altro, ci aveva portato a fare i bagni a mare a Marola. Molto pudica e cattolica, fra tante giovani e meno giovani bagnanti piuttosto scarsamente vestite, indossava con incredibile disinvoltura un costume da bagno con un gonnellone fino alla caviglia che doveva risalire quanto meno agli anni della guerra di Libia. Era a suo modo un tipo da spiaggia.
L'Ospedale di Marina a un certo punto fu quasi integralmente trasferito a Marina di Massa. E lì ci stabilimmo nel 1942 o forse all’inizio del 1943. Ma la sede formalmente principale restava ancora quella di La Spezia. Ricordo, infatti, che nostro padre vi si recava in automobile ogni qualvolta veniva la notizia di un allarme in città. Con l’oscuramento, di notte, doveva essere un bel rischio. Una volta, ci disse anche che, per arrivarci, era stato costretto a passare sopra un ponte su cui straripava la Magra in piena.
A Marina di Massa, con l’Ospedale che si riempiva di reduci dalla Russia, si cominciarono a vedere più da vicino gli effetti della guerra. Ma quei ventenni dagli arti amputati che si aggiravano con le stampelle costituiscono l’unica forte impressione che allora ne ebbi. Il cibo era razionato, ma non ricordo di aver sofferto la fame in quel periodo. Noi avevamo una bella spiaggia proprio davanti a casa. Avevamo anche amici più o meno della nostra stessa età, Aldo, Mario e Giorgio Chiappini, figli del vicedirettore, già conosciuti a La Maddalena fra il 1938 e il 1939. C’era poi anche una bella pineta per i nostri giochi. Di bombardamenti che colpivano le città sempre più duramente, com’è ovvio, si parlava, ma non riguardavano paeselli come Marina di Massa e neanche, per il momento, cittadine di provincia come Massa. Erano insomma cose lontane quasi come il fronte da cui provenivano quei poveri ragazzi dagli arti amputati. Arrivavano anche alle nostre orecchie di ragazzini echi dello scontento che circolava nel paese, ma non ci apparivano cose meno lontane. Tra l’autunno del 1942 e l’inizio del 1943 la sconfitta dell’Asse si profilava ormai chiara. Mi è rimasta tuttavia l’impressione che pochi se ne dessero pensiero. E non credo che fosse per effetto della propaganda martellante, perché tutti ascoltavano anche radio Londra, senza creder troppo né all’una né all’altra campana.
Emozione in questo ambiente scettico e incosciente cominciò a suscitare lo sbarco degli americani in Sicilia. Molta di più, un paio di settimane dopo, ne suscitò la caduta del fascismo. Gli antifascisti uscirono allo scoperto: un marinaio, che doveva essere di famiglia già socialista, ci raccontò la storia del delitto Matteotti. Ci fece molta impressione e ne parlammo ai nostri genitori, che confermarono. Era il crollo di un mito: il fascismo da erede delle nobili tradizioni patriottiche del Risorgimento, come ci era stato presentato a scuola, diventava delinquenza. Intanto i fascisti erano spariti di circolazione e pareva quasi che non ce ne fosse mai stato uno. Così dovette essere dappertutto in Italia, se così fu perfino a Marina di Massa. Veramente pochi dovevano rendersi conto della gravità della situazione e di quel che inevitabilmente sarebbe successo.
Ce ne cominciammo a rendere conto solo l’8 settembre 1943, che per noi ragazzini, educati a scuola all’amor patrio, costituì un trauma. Ma più ancora ce ne rendemmo conto subito dopo, quando i soldati tedeschi entrarono nell’Ospedale per prenderne possesso, occuparono anche la nostra pineta e di lì a poco ci invitarono senza troppe storie a sloggiare. Giancarlo ha raccontato il seguito a Viareggio e a Camaiore. Aggiungerò solo qualche particolare non del tutto insignificante.
Tra gli oggetti d'oro che nostro padre, privo di stipendio, dovette vendere per mantenere la famiglia, c'era, ricordo bene, anche un portasigarette, dono con dedica incisa del duca degli Abruzzi. Dovette essere molto doloroso per lui che alla memoria del duca era molto legato.
A Viareggio per arrivare a scuola attraversavamo la pineta per consiglio dei nostri insegnanti, raccolto dai nostri genitori. Si sapeva che qualche tempo prima, a Grosseto, un aereo americano aveva mitragliato bambini mentre giocavano. La pineta aveva la funzione di nasconderci alla vista dei piloti degli aerei. Correvamo questo rischio da parte di quelli che pure, con qualche ragione, consideravamo come i nostri futuri liberatori. Oltre a questo di Viareggio mi è rimasto il ricordo di un freddo terribile, di una fame non indifferente e di un cibo non propriamente gustoso. Ma era ancora nulla rispetto a quel che si soffrì a Camaiore, soprattutto per fame e disgusto per un cibo fatto essenzialmente di acqua, un pugnetto di farina di granturco e pochi pezzi di zucca gialla, tutte cose bollite insieme senza sale. Mancava tutto, anche il sale. E dello scarso pane nero della tessera, che da un certo momento in poi non si capiva più con che cosa era fatto, a fine pasto si raccoglievano le briciole rimaste sulla tovaglia, utilizzabili per il pasto successivo.
La mia principale occupazione a Camaiore fu star dietro a Fulvio che, quando vi arrivammo, non aveva ancora un anno. Facevo assai poco fuori casa, ove erano più spesso Giancarlo e Guido. Avevo finito di frequentare anzitempo la prima media a Viareggio, perché i tedeschi avevano fatto sgombrare tutti dalla città, prima della fine dell’anno scolastico. A Camaiore però ebbi perfino modo di studiare per tener fresco il latino che allora era materia di studio già in quella classe. Mi aiutava una ragazza lucchese, probabilmente una liceale, la cui famiglia era rifugiata in una parte del capannone di cui ha detto Giancarlo.
(Tra parentesi, ero allora un ragazzino molto diligente. Poi, nel dopoguerra, a Polignano, i problemi dell’adolescenza, il disagio dei viaggi in treno merci per andare a scuola a Mola, con lunghe attese in stazione, i pessimi esempi di compagni di scuola, ma soprattutto la meschinità di un insegnante complessato, mi resero un ragazzo che odiava la scuola e quel che vi s’insegnava. Ad ogni modo, la tendenza a imparare da solo più o meno malamente un po’ di tutto, purché non s’insegnasse a scuola, mi si formò allora, mentre dovevo badare a Fulvio ancora in culla e non sapevo che altro fare per non morir di noia).
Così stando le cose, il giorno del primo bombardamento su Camaiore mi trovai a dover andare su quella piazza del mercato solo perché Giancarlo e Guido dovevano andare altrove (Guido al mulino, Giancarlo a fare le normali spese). Andavo all'ufficio dell’annona che era lì, all'angolo con la piazza, sulla via principale del paese. Vi arrivai con una donna del luogo alle cinque di mattina, in ragione di un sacchetto di grano che mi sarebbe stato dato in cambio dei bollini della tessera del pane per la nostra famiglia, perché con gli alleati alle porte, l'annona stava per chiudere senza distribuire altro.
Dopo tre ore in piedi nella piazza gremita, alle otto, mentre si aprivano le botteghe, si sentirono prima girare sulle nostre teste gli aerei alleati e poi scendere in picchiata. La folla accalcata si sbandò. Temendo che mitragliassero, come avevano fatto fino ad allora, mi rifugiai nella bottega di un calzolaio appena aperta all'angolo opposto della piazza. Fu un attimo: si sentirono i fischi delle bombe che venivano giù veloci e le esplosioni, e mi trovai illeso tra feriti sanguinanti e calcinacci che mi cadevano tutt’intorno in un gran polverone. Pare, in effetti, che un armadio al piano di sopra mi avesse salvato da più pericolosi oggetti in caduta libera dal tetto e dal soffitto del piano di sopra. Quando tutta la polvere si depositò — mi parve un secolo —, vidi una via d'uscita e mi precipitai fuori. La piazza era devastata. Quei criminali avevano fatto una strage di povere donne venute lì da tutta la vallata a prendere il sacchetto di grano distribuito dall'annona. I muri, o quel che ne restava, erano ricoperti di pezzetti di cervello. Era tutto un lamentarsi di feriti e un urlare di gente accorsa. Un giovane correva fra le buche aperte dalle bombe invocando sua madre a perdifiato (quando faccio cattivi sogni, lo vedo e lo sento ancora).
Scappai via verso casa. In effetti, dovevo essere irriconoscibile, per il sudiciume appiccicato addosso, ma con un solo bernoccolo in capo, quando sulla strada di casa incontrai nostro padre che, con Giancarlo, veniva giù in paese per cercarmi da Misciano, dove abitavamo. Non mi riconoscevano, li chiamai io. Non ricordo però di aver perso sangue. Se ne avevo in faccia o altrove, come ricorda Giancarlo, non doveva essere sangue mio.
Ci furono nei giorni successivi altri bombardamenti su Camaiore. Non mi risultò che fosse ucciso o ferito alcun soldato tedesco o repubblichino, né, tanto meno, che fosse colpito un solo obbiettivo militare, anche perché, dopo tutto, non ce n’era neppure uno in paese. Bombardavano, al solo scopo di sentirsi potenti e farsi coraggio, su civili inermi, che, nella maggior parte dei casi, li aspettavano come liberatori.
In seguito alle vicende di Camaiore, mi è rimasta soprattutto una profonda impressione della bestialità cui, guerra aiutando, possono giungere gli uomini. Delle “ragioni” della strage di Sant’Anna di Stazzema non so. Credo che non ce ne fosse altra che appunto la bestialità cui sapevano giungere solo le SS (parlo delle SS, non degli uomini della Wehrmacht, che non sempre, ma per lo più furono corretti). Secondo la sentenza del tribunale militare di La Spezia, confermata in appello e in cassazione, a Sant’Anna non c'erano stati scontri tra partigiani e tedeschi e la voce che ci fossero stati attentati fu messa in giro ad arte dai repubblichini locali. E’ certo solo che non ne esiste alcuno straccio di prova. Che si trattasse di una rappresaglia secondo la regola dei 10 civili italiani trucidati per ogni militare tedesco caduto per mano di partigiani, è poi del tutto inverosimile: nel caso ci sarebbe stato un combattimento o un attentato di dimensioni tali da comportare 56 morti di parte tedesca, oltre una ventina in più di quelli di via Rasella. Una cosa del genere non sarebbe passata inosservata. A Camaiore e dintorni, però, né allora né poi qualcuno se n’è mai accorto. E non risulta che nel processo presso il tribunale di La Spezia vi abbiano lontanamente accennato i difensori degli imputati. Che io ricordi, del resto, almeno a Camaiore, di partigiani propriamente non c'erano: c'erano solo uomini che si nascondevano in montagna per non fare il servizio militare per i tedeschi o non essere deportati in Germania per un lavoro schiavistico.
Dalla vallata di Camaiore i tedeschi, che non avrebbero potuto dar battaglia per via della stessa conformazione del terreno, si ritirarono senza colpo ferire. Non ci fu alcuno scontro, neppure con partigiani. Mentre i tedeschi si erano già ritirati ed esplodevano sulle nostre teste sdrapnel sparati dall’artiglieria americana, scesero dalle montagne, ove non avevano fatto assolutamente nulla più che nascondersi, un certo numero di giovani con il mitra a tracolla e il fazzoletto rosso. Nell’insieme furono accolti bene. Il nostro padrone di casa, il maggior Rampolla, che pochi giorni prima l’aveva offerto alle SS (che per l'occasione non avevano neanche mancato di truffarlo), offrì a uno di loro qualche bicchiere di vino. E' possibile che anche in paese qualche ragazza innamorata di un soldato tedesco, fosse allora rapata, ma non lo ricordo. Ricordo bene invece un solo fatto molto più brutto, che mi fece male. Si vide girare vestita a lutto una bambina che conoscevamo di vista. Era figlia di un collaborazionista che non aveva fatto in tempo a scappare al nord dietro ai tedeschi.
In paese si costituì un'amministrazione provvisoria che non poteva da sola reggere la situazione e mandò quindi suoi emissari a Viareggio per avvertire gli alleati che a Camaiore di tedeschi non c’era più l’ombra e per invitarli a venire ad occupare la posizione. Quelli chiesero ai nostri di ricostruire prima i ponti già fatti saltare dai tedeschi in ritirata. Così fu fatto e, dopo qualche soldato brasiliano mandato in perlustrazione, che arrivò fin dai noi a Misciano e oltre, si vide qualche carro armato USA in paese. Gli alleati non si mossero neanche per snidare i tedeschi che, dalla cima del Matanna, spedivano su Camaiore un proiettile di mortaio al giorno (pare che fossero non tutti e dodici quelli che avevano presidiato il paese, ma solo i tre sufficienti alla bisogna). Li snidarono tre alpini italiani che si offrirono per farlo.
Così finì la guerra a Camaiore. Senza prove dell’eroismo dei liberatori, al di là di qualche non proprio eroico bombardamento o sulla piazza del mercato o sul cimitero o su un mulino o su una fabbrica di piatti, pentole e posate di alluminio.
Almeno per quel che mi riguarda, non me la sento di esagerare su quelle esperienze della guerra come formative del mio carattere. Personalmente, almeno, ho l'impressione che, nonostante tutto quel che passammo allora, ancora molti, anzi, troppi anni dopo la guerra, io fossi solo un "ragazzo cresciuto assai" (come dicono a Napoli). E, nonostante tutto, ne sono anche contento. Per diventar vecchi e saggi si è sempre in tempo. Vecchio, per la verità, sono anche diventato; saggio non so. Giudicate voi!
Silvio