mercoledì 9 marzo 2011

L’avventura con la motosilurante

I primi di Giugno del ’64 imbarcai a Porto Corsini (Marina di Ravenna) su una motosilurante tipo Higgins, dotata di tre motori d’aeroplano Isotta Fraschini da 1500 cavalli ciascuno, armata con due siluri, una mitragliera da 40 a poppa ed una da 20 a prua. Era il mio primo Comando, abbinato all’incarico di Capo Squadriglia di quattro motosiluranti.
Feci una breve uscita in mare con il Comandante che mi passava le consegne: mi dimostrò in pratica come manovrare il motoscafone lungo 24 metri, dotato di tre assi e tre eliche tutte destrorse. Quando si mettevano indietro per fermare l’unità bisognava farlo con estrema cautela, soltanto con l’elica di sinistra, altrimenti la motosilurante avrebbe ruotato rapidamente su se stessa di una novantina di gradi, col rischio di far danni. La manovra di ormeggio la fece lui, io stetti solo a guardare. Il passaggio di consegne si limitò a quella breve uscita, dopo di che il Comandante sbarcò.
Pochi giorni dopo, l’8 Giugno, avevo in programma la prima uscita operativa in mare, assieme ad un’altra motosilurante della squadriglia, comandata da un Guardiamarina di Complemento. Saremmo usciti subito dopo il tramonto per una esercitazione notturna al largo di Punta Maestra, Delta del Po, dove saremmo venuti in contatto con il cacciatorpediniere Carabiniere. Mi preparai al meglio per l’esercitazione e la sera del giorno stabilito, all’imbrunire, con ottime condizioni meteo-marine e nessun avviso di burrasca, uscii in mare, seguito dall’altra motosilurante.
Appena fuori dal porto canale notai che il cielo verso Nord era molto scuro, praticamente nero, ma non me ne preoccupai, il tempo era assicurato. Procedendo verso Nord a 30 nodi dopo una decina di minuti cominciò ad alzarsi uno strano vento da Maestrale che acquistava rapidamente forza, tanto che il mare diventò presto bianco di spuma da appena increspato che era poco prima. Il vento veniva da terra per cui il mare non si alzava e le due motosiluranti procedevano contro vento senza eccessivi problemi.
Pensai comunque che l’esercitazione sarebbe stata annullata e cercai di mettermi in contatto con il Carabiniere, senza riuscirci. Il vento intanto continuava ad aumentare d’intensità, per cui decisi di tornare in porto e lo comunicai all’altra motosilurante, dandole anche libertà di manovra. Non era passata neppure un’ora da quando eravamo usciti in mare. Intanto s’era fatto buio e la visibilità era così ridotta per l’acqua polverizzata dal vento che non si vedevano neppure i fari di Punta Maestra e di Porto Corsini. Anche l’altra motosilurante si intravedeva appena pur essendo a una cinquantina di metri. L’ultima volta che la vidi fu quando invertimmo la rotta.
Avevo fatto giusto in tempo a farle quella comunicazione, poco dopo perdemmo il contatto radio. Intanto il vento stava girando verso Nord-Nord-Est continuando ad aumentare di forza. Mi è rimasto impresso un particolare: la bandiera nazionale che sventolava in alto pochi metri a poppavia della plancia, pur procedendo la motosilurante a 30 nodi, planando sulle onde col vento in poppa, si lacerò tutta sventolando verso prua! Seppi poi che il vento misurato dalle stazioni costiere aveva raggiunto la forza 12 della scala Beaufort, superando i 70 nodi: forza di uragano.
Procedemmo con la stima: in pratica avendo invertito la rotta dovevamo trovarci davanti al porto dopo poco meno di un’ora. Ma non si vedeva nulla. Ad un tratto avvistammo vicinissima una grossa petroliera che ricordavo di aver visto all’ancora in attesa di entrare in porto. Era in evidenti difficoltà, essendo scarica faceva molta vela e l’ancora arava, l’elica era metà fuori dall’acqua e girava mentre la nave stava salpando con la prua al vento.
Dopo averla scansata passandole di poppa, avendo la conferma di essere davanti al porto canale, misi anch’io la prua al vento e in pratica mi misi alla cappa col mare al mascone di dritta per cercare di avvicinarci all’imboccatura, sperando di vedere il rosso e il verde prima o poi. Restammo in quella situazione per almeno un’altra ora con la prua che andava sott’acqua ad ogni onda e con serie difficoltà a respirare in plancia scoperta, protetta soltanto da un parabrezza.
Il sottufficiale motorista che stazionava in sala motori assieme a due sottocapi motoristi venne preoccupato in plancia a riferirmi che temeva che i motori potessero fermarsi per l’acqua che riusciva ad entrare dai portelli e che lui cercava disperatamente con ogni mezzo di non far entrare nelle prese d’aria dei carburatori. Fu bravissimo, i motori grazie a lui continuarono a funzionare, altrimenti il nostro naufragio sarebbe stato sicuro.
A un tratto vidi le sciabolate bianche del faro che illuminavano a tratti l’acqua polverizzata che ci sovrastava. Cercai di misurare il rilevamento della sorgente luminosa e vidi che eravamo scaduti sottovento rispetto all’ingresso del porto i cui fanali rosso e verde non si vedevano. Dovemmo aumentare i giri dei motori e, molto lentamente, riguadagnare la distanza sopravento per portarci al traverso dell’imboccatura che, dopo un’altra ora finalmente apparve, molto vicina.
Per fortuna il timoniere di manovra che avevo accanto a me era un anziano sottufficiale nocchiere che aveva mantenuto la calma. Mi assicurò che se la sentiva di entrare con la motosilurante in porto purchè avessimo avuto la necessaria velocità per governare, così appena vidi chiaramente il rosso e il verde dell’ingresso in porto, a non più di un centinaio di metri, accelerai e gli dissi di dirigere per l’ingresso, accostando a sinistra di una novantina di gradi per allinearci col canale. Pochi minuti dopo entravamo sparati a 30 nodi, esattamente in mezzo al porto canale. Lo avrei abbracciato.
Ma i guai non erano ancora finiti. Mi vidi subito altissimo, le due sponde del canale erano pochissimo al di sopra della superficie dell’acqua che sembrava un fiume in piena, con la differenza che l’acqua non era uscente ma entrante, spinta da quel vento con forza di uragano, che era ancora girato verso Nord-Est. Appena entrato in porto avevo portato al minimo le tre manette dei motori che tenevo in mano, ma la motosilurante andava sempre velocissima per la forte corrente in entrata.
Passammo così in piena velocità vanti all’ingresso laterale della darsena sulla nostra sinistra, dove saremmo dovuti entrare per raggiungere il nostro posto di ormeggio. Prima di volgere a sinistra verso Ravenna, il canale aveva un tratto morto dritto davanti, dove era ormeggiata sulla dritta la nostra motozattera che ci faceva l’assistenza, contenente i pezzi di rispetto delle motosiluranti ed un’officina per gli eventuali lavori. Pensai che se fossi andato ad accostarmi a lei non avrei avuto grossi problemi perché in quel budello cieco la corrente non poteva esserci. Inoltre avrei avuto l’assistenza dell’equipaggio della motozattera per la manovra di ormeggio.
Mentre facevo queste congetture mi trovai all’improvviso davanti a un cavo d’acciaio teso da una sponda all’altra, che veniva impiegato per una zattera che traghettava non più di una decina di persone e che era stato lasciato scelleratamente teso invece che affondato. Istintivamente portai indietro le tre leve degli invertitori, col risultato che la motosilurante si traversò immediatamente finendo irrimediabilmente sul cavo.
Riportai l’invertitore avanti con la barra alla banda per raddrizzare lo scafo e le eliche tranciarono il cavo, ma l’asse centrale che era il più basso si bloccò. Poco male, mi restavano le due eliche laterali per manovrare. Le mie supposizioni si avverarono, la corrente in quel budello cieco era quasi nulla e tutto l’equipaggio della motozattera era pronto a darci una mano, con tutti i loro parabordi già in posizione. Ci preparammo anche noi con i cavi d’ormeggio già provvisti di gasse da incappellare direttamente sulle bitte, i sacchetti lanciasagole, i mezzi marinai e tutti i parabordi sistemati sul fianco sinistro. Feci un’ampia accostata per presentarmi col vento in prua e mi affiancai senza grosse difficoltà.
Erano le due di notte, l’avventura era finita, ma non così le preoccupazioni per l’altra motosilurante di cui non avevamo notizie. Restammo sulla motozattera ad aspettarla, e dovemmo rimanerci fino al sorgere del sole, quando la vedemmo arrivare. Tirai un sospirone di sollievo. Il vento nel frattempo era alquanto diminuito d’intensità. Il Comandante, Guardiamarina Crusizio, mi disse che era rimasto fuori alla cappa tutta la notte, ritenendo troppo rischioso tentare di entrare al buio nel porto canale. Non seppi dargli torto.
Ci avviammo a piedi verso il non lontano albergo dove alloggiavamo, ma non si poteva entrare: stavano cercando di rimuovere un albero che era caduto davanti all’ingresso, ostruendolo. Molti altri alberi erano abbattuti per strada, dove c’era di tutto, da tegole e cornicioni piovuti dal cielo a insegne e cartelloni pubblicitari, i più leggeri dei quali continuavano ad essere portati dal vento, peraltro notevolmente diminuito. A memoria d’uomo nessuno, neppure tra più anziani, ricordava un simile colpo di vento.
Sapemmo poi che una nave si era spezzata in due davanti al porto di Ancona per aver arato finendo sulla scogliera dell’avanporto, che il Carabiniere aveva avuto grossi guai per acqua entrata nel fumaiolo, che tutti gli stabilimenti balneari da poco allestiti per l’estate erano volati via, che dozzine di pescherecci avevano salvato la barca e la pelle buttandosi sulla spiaggia, seguendo le antiche tradizioni dei bragozzi dell’Alto Adriatico.
Era stata la mia prima uscita in mare da Comandante, più fortunato o sfortunato di così, secondo i punti di vista, non potevo essere stato. Durante quelle tragiche ore avevo considerato con una strana rassegnazione mista a rabbia che probabilmente non avrei mai visto la mia prima figlia Paola, la cui nascita era prevista in Novembre. Nel tardo pomeriggio arrivò da Taranto l’Ammiraglio Comandante la Divisione Navale di cui facevano parte le nostre motosiluranti. Era venuto a stringerci la mano congratulandosi con noi per lo scampato pericolo.